Archivio per la categoria ‘arte e spettacoli’

papafrancescoHabemus papam. Sì, habemus papam, con la h iniziale e la m finale: se ce l’ha fatta mia sorella di undici anni a scrivermelo correttamente tramite sms, penso che con un po’ di sforzo possiate farcela anche voi. Dopo un paio di fumate nere e dense come il petrolio, tanto da farci ipotizzare che avessero dato fuoco anche a qualche dossier, alla trippa di un paio di porporati e a una mezza dozzina di chierichetti finiti per sbaglio sotto le ampie vesti dei partecipanti per intrattenerli durante la dura clausura del Conclave, finalmente la fumata bianca. Piazza San Pietro in preda al delirio, bandiere di varie nazioni che sventolano manco fossimo allo stadio, cronisti di tutto il mondo in famelica attesa. VATICAN CONCLAVE 2013: FIRST DAY

Prima di tutto fa la sua prima comparsa da papa il nostro Francesco primo, che ancora non si capisce perché mai debba essere definito primo prima che ce ne sia un secondo, sempre che questo accada. Primo a chiamarsi Francesco, primo papa sudamericano ( o sudamericans, come direbbe la nostra Nicole Minetti) , primo papa gesuita. Primo papa a esserlo in concomitanza con il vecchio papa emerito. Una grossa ventata di novità, insomma dal soglio pontificio: dalla scelta del nome a quella del lessico e del look, tutto farebbe pensare a una linea di decisa semplicità e pragmatismo per il nuovo pontefice. Lo hanno sottolineato qualche miliardo di volte gli inviati speciali di tutte le televisioni del mondo che, data la notizia, non sapevano palesemente più che cosa inventarsi per riempire gli enormi spazi televisivi dedicati all’evento. Dopo aver sezionato ogni parola, ogni gesto, ogni minima espressione facciale del minuto e mezzo di discorso iniziale di Jorge Bergoglio, sono passati ad analizzare le varie sfumature semantico-ideologiche del sostantivo semplicità, per poi tirare fuori come asso dalla manica i servizi sul passato del papa dalle origini ad ora. Nel trambusto generale, si riesce addirittura a scoprire che sua Santità ha antenati niente meno che nell’astigiano, poi emigrati nelle pampas: trama degna di una soap opera latina, se fosse stato brasiliano mi sarebbe sorto il dubbio che ci fosse sotto lo zampino degli autori di Terra Nostra. Colpo di scena, la mia coinquilina, nonché co-autrice di questo blog, è nientemeno che astigiana con origini argentine: devo prenderlo come un messaggio della venuta del temuto Anticristo, essendo lei una vera e propria senzadio? Devo, invero, ritenerlo un segnale di assoluta redenzione e ritenere di aver davanti – ora impegnata a lavare i piatti – la prima futura Papessa, Leona, prima del suo nome? Trame degne dei “Borgia” vagano per la mia mente, mentre su questo nuovo vicario di Dio in terra – subito risultato a tutti simpatico – non può di certo mancare di farsi sentire l’opinione, peraltro al solito non richiesta, della comunità gaia. Scavando nel passato del nostro Bergoglio, si scopre che qualche anno fa si è scagliato contro i matrimoni gay, rivendicando la forte posizione della Chiesa in difesa del matrimonio come sacro vincolo tra uomo e donna, atto a generare e poi allevare tutti i figli che il Signore vorrà mandare. Scusate, care passive che non sapete manco da che parte siete girate, ma che vi aspettavate? Per quanto appaia come semplice, diretto e innovatore, stiamo sempre e comunque parlando del papa, portavoce del pensiero della Chiesa, istituzione incredibilmente conservatrice . Piuttosto che prendervela con il neoeletto, classificandolo istantaneamente – secondo me a torto – come omofobo, riflettete sul fatto che il diritto a sposarsi tra persone dello stesso sesso dovrebbe essere un diritto civile, mica religioso! In Italia siamo, a tutti gli effetti, ancora ben lungi dall’equiparare le coppie di fatto ai matrimoni tra uomo e donna, pensate che sia compito del Vaticano colmare questo difetto?

Detto ciò, propongo di dare la fiducia a questo papa Francesco, riservandomi naturalmente di valutare di volta in volta se il suo operato mi risulterà congeniale o meno. Per la parcondicio, un salutone anche al nostro vecchio papa emerito: adieu Papa-Ratzi, spero tu ti sia portato via le tue ciabatte di Prada, perché pare che il nuovo arrivato non sia intenzionato a diventare il nuovo volto di Vogue!fumata bianca

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Cari lettori, ripropongo anche qui sul blog un articolo che ho scritto per la rivista online della mia società di danza che è stato pubblicato sul relativo sito (link qui).

rotolata indietro in allenamento

rotolata indietro in allenamento

contemporaea1

Il mio incontro con il mondo della danza, in particolare quella contemporanea, è stato assolutamente fortuito ed accidentale. Un’amica desiderosa di provare alcuni corsi durante la settimana di prova e ancor più desiderosa di non andarci da sola, unitamente alla complicità di un raro periodo della mia vita in cui non avevo molto da fare e in cui mi ero ripromesso di aderire a qualsiasi proposta mi fosse pervenuta, hanno fatto sì che, per la prima volta in vita mia, mettessi piede in una sala da ballo. Specchi, giganteschi specchi ovunque, che non sembravano avere altra intenzione se non quella di sottolineare la goffaggine del sottoscritto ed un riscaldamento che all’epoca mi parve lunghissimo, articolato e complesso mi diedero il benvenuto nel mondo della danza contemporanea. I ricordi delle prime lezioni sono per me assolutamente confusi, non capivo quasi nulla di quello che succedeva, se non che bisognava ballare a piedi nudi sul parquet e – credetemi – per uno come me che faticava anche solo a camminare in spiaggia a causa dei piedini tanto delicati, era una vera faticaccia. Non parliamo poi delle sequenze a terra! Dopo ogni lezione mi portavo a casa i lividi della mia battaglia con il pavimento, non tanto come medaglie al valore per il risultato ottenuto quanto più come premio di consolazione per l’impegno: quello, almeno, c’è sempre stato! Vedevo al contrario la mia bella insegnante scivolare a terra con una leggerezza stupefacente, accarezzare il pavimento, scendere e risalire con eleganza e fluidità, naturalmente senza un graffio. Che poi, dannazione, manco avesse vent’anni, ma quando la vedevo ballare cominciavo a convincermi che nella contemporanea ci fosse una sorta di elisir di eterna giovinezza. E poi la musica. Altra mia grande passione, che mi piccavo pure di pensare di aver capito, almeno a mio modo. Musica che in questo genere va seguita, eccome, ma con quali tempi? Non si conta, dimenticatevi i cinque-sei-sette-otto che la cinematografia ci ha messo in testa. La musica, per lo più elettronica, si segue, tenendo le orecchie ben aperte, riascoltando i pezzi mille volte finché non è chiaro dove ci sono gli accenti. Già, perché gli accenti corrispondono alle spinte delle braccia, che sono il motore principale di tutta la coreografia, alle quali tutto il resto del corpo segue con fluidità, braccia che non fanno altro che disegnare immensi cerchi e spirali, tendendo tutto il corpo verso l’alto, espandendosi fino ad occupare tutto lo spazio disponibile e raggiungere il cuore del pubblico. Ammetto che tutti questi concetti mi hanno confuso parecchio all’inizio, non ne afferravo il senso e – soprattutto – dovevo nuovamente confrontarmi con il mio incubo nel disegno letteralmente a mano libera, disciplina più critica di tutta la mia carriera scolastica. Un giorno poi, ho capito, perlomeno credo di aver capito il senso, il filo conduttore concettuale di tutto questo discorso, della modernità di questa tecnica, della travolgente e coinvolgente passione tutta brasiliana di Oriete, della felicità che si può provare ballando. Ho cominciato a scandire le mie settimane sugli allenamenti, nonostante la fatica dello stretching e gli addominali massacranti. Ballo da soltanto un anno e mi rendo conto che, già solo per il voler scrivere un articolo sulla danza, potrei risultare presuntuoso rispetto a ballerine vere che hanno faticato per decine d’anni alla sbarra e sulle punte. Non ho esperienza in questo campo, non sono cresciuto venerando i mostri sacri del balletto, non ho mai veramente pensato di essere tagliato per una disciplina artistica come questa. Improvvisamente, però, me ne sono innamorato. Ho trovato di nuovo una passione con cui confrontarmi, in cui dare il meglio di me, in cui mettermi nuovamente in gioco, in cui cercare il modo di esprimere appieno la mia personalità. Una passione con cui crescere, individualmente e socialmente, con la quale imparare qualcosa di nuovo in ogni allenamento, grazie alla quale reinterpretare me stesso. Sono le passioni che ci tengono vivi, che ci aiutano a superare le difficoltà e ci permettono di gustare il bello della quotidianità. Grazie e complimenti a tutti gli insegnanti che, per il loro entusiasmo e la grande professionalità permettono anche a noi comuni mortali di avvicinarsi ad un’arte tanto complessa ed affascinante.

viaggio in treno

Lia sognava di trovarsi in un luogo magico, senza tempo. Era un tipico sogno da bambina, dai contorni opalescenti e della stessa sostanza delle fantasie che si fanno prima di addormentarsi, di cui non si ricordano bene i dettagli, ma soltanto l’impressione, il senso di pace. Quanti anni aveva adesso? Cinque, sette, dieci: erano solo numeri. Immaginava di essere esattamente al centro di un panorama meraviglioso, circondata su ogni lato da colline ondulate e sempre più alte, con le cime appena sfumate in un velo di nebbia. Con gli occhi chiusi sentiva i teneri raggi di un sole primaverile accarezzarle le guance e quasi riusciva a percepirne il lieve, lievissimo tepore. Correva veloce tra le zampe massicce di quei giganti verdi, tanto grandi e possenti da non riuscire più a muoversi, correva veloce e il vento le spettinava i capelli, facendola ridere fino al mal di pancia, fino alle lacrime. Aprì gli occhi e li alzò verso la signora che le stava davanti e la fissava con aria interrogativa. Sembrava anche piuttosto spazientita e questo la fece sentire proprio come quando a scuola la maestra la rimproverava perché non stava attenta. Sorrise per nascondere l’imbarazzo e tirò fuori dalla tasca un foglio di carta tutto stropicciato.

‹‹Mi scusi ero… distratta. Mi dia un biglietto per qui per favore›› disse porgendo alla signora quell’angolo di quaderno su cui aveva annotato la destinazione prescelta. La signora lesse senza commentare e digitò il nome del paese sulla tastiera. Un minuto dopo le porse il biglietto del treno e le augurò buon viaggio senza troppo entusiasmo. Lia sorrise di nuovo e andò a cercare un’obliteratrice, trascinandosi dietro il borsone, prima di avviarsi sul proprio binario. Era il numero 6, quella stazione era davvero grande. Vide un cartello che indicava i binari dal 2 al 10 e lo seguì verso le scale. Aveva un po’ paura di perdersi, tra tutti quei numeri e quegli annunci diffusi meccanicamente dagli altoparlanti. Si sentiva davvero una bimba smarrita, come quelli della storia che le leggeva sua mamma per farla addormentare, ma fece un respiro profondo e andò avanti, anche se si rendeva conto che quel mondo di adulti sicuri di sé che le stava intorno non era proprio il suo. Pensò che in fondo erano un po’ ridicoli, tutti quegli uomini indaffarati, con la cravatta, e quelle donne con tacchi alti che non potevano che fare male. Sorrise vedendosi riflessa sul vetro di un cartellone pubblicitario, in tuta e scarpe da ginnastica: era al binario 6 e stava partendo per un’avventura, che importanza aveva tutto il resto? L’emozione la commosse e le inumidì gli occhi, mentre un fischio la risvegliò dai pensieri che ancora una volta l’avevano catturata, avvisandola che il suo convoglio era arrivato. Abbracciò la tracolla del bagaglio un po’ troppo pesante e si arrampicò su una carrozza. Vide un posto libero e vi si lasciò cadere, rimbalzando poi subito in piedi per guardare fuori dal finestrino e appiccicarsi in mente ogni cosa, ogni dettaglio. Era piena di entusiasmo, di energia e le paure di prima erano già poco più che un ricordo. Come i bambini e come i vecchi Lia aveva una memoria strana, che ricordava perfettamente e a lungo alcune cose, dimenticandone però altre con la velocità con cui spariscono le ombre quando in una stanza si accende la luce. Negli ultimi giorni tendeva a cancellare in fretta soprattutto le paure, che si susseguivano insolitamente numerose, ma svanivano poi con una tale facilità che quasi stentava a rendersene conto. Per esempio, per un momento poteva avere addirittura terrore di entrare in una stanza buia, temendo che un qualche mostro potesse mangiarle entrambi i piedi lasciandola inerme, ma dieci minuti dopo magari vi si aggirava tranquillamente, procedendo a tentoni anche a lungo, a volte anche ridendo, come un bambino che giochi a mosca cieca divertendosi un mondo.

All’improvviso il pavimento si mosse e pian piano il treno scivolò via dalla stazione, per incamminarsi rapido lungo la sua strada. Il viaggio era cominciato davvero e adesso, finalmente, tirando giù un po’ il finestrino, poteva sentire il vento della corsa tra i capelli e in gola. Guardò ancora per un attimo il binario che aveva appena lasciato, poi si sedette e chiuse gli occhi, permettendo alla sua mano sinistra di continuare a galleggiare nell’aria che le sferzava il palmo e le dita, spingendo il polso prima in alto e poi in basso.

‹‹Non si può tenere la mano fuori dal finestrino, il controllore ti sgriderà!››

Il rimprovero di una vecchia seduta dall’altra parte del corridoio la fece trasalire e le imporporò le guance. La guardò e sorrise, facendo scivolare la mano all’interno e posandosela su una gamba. La vecchia era una di quelle signore che sembrano già vecchie a quarant’anni, per aver avuto da sempre la pessima abitudine di porre più attenzione alla vita degli altri che alla propria. Non avrebbe saputo dire quanti anni potesse avere, ma di sicuro doveva sentirsene parecchi sulle spalle. Si era tutta avvolta in uno scialle di lana probabilmente prodotto dalle sue stesse mani, di un colore indefinibile tra il grigio e il verde, brutto e un po’ sgualcito ai bordi. Doveva sentire molto freddo nelle ossa. Lia la osservò per un lungo momento, squadrandola senza farlo apposta, poi colse un suo sguardo infastidito e si voltò dall’altra parte abbozzando un altro mezzo sorriso. Sorrideva sempre quando era in imbarazzo, tentando di far ridere gli altri e di stemperare l’ostilità dell’aria che respirava. Quel giorno le era già successo tre volte e la cosa la scocciava un po’, perché stava continuando a fare la figura della bambina poco educata. Ma forse avevano ragione tutti: non era altro che una bambina capricciosa che era caduta correndo. Si era sbucciata un ginocchio e ora voleva soltanto la sua mamma per farsi consolare. Era stato difficile per lei fare tutte le cose necessarie per partire e adesso iniziava a sentirsi stanca. Dove si era cacciata la sua mamma? Chissà. Aveva provato a chiamarla, anche a voce alta, ma non le aveva risposto. Le vennero le lacrime agli occhi a pensarci e allora strizzò le palpebre e cercò di distrarsi guardando fuori dal finestrino. Gli alberi, le case, i palazzi, i campi, tutto si susseguiva ad una velocità pazzesca, mischiando insieme le forme e i colori e dandole un leggero senso di nausea. Aveva anche un po’ di fame: nausea e fame, come una donna incinta. Era incinta? No, era impossibile, lei non poteva ancora diventare mamma, aveva ancora troppo bisogno di essere la figlia, la bimba, il cucciolo. Si abbracciò la pancia come poteva e sorrise per la tenerezza di quel pensiero. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dai saltelli del treno come un neonato nel lettino, scivolando lentamente nel dormiveglia. Vagò tra principesse e cavalieri, avvocati, portaborse, segretarie e dottoresse, finché la voce registrata che annunciava “Termine corsa del treno” non la riportò alla realtà. Aprì gli occhi e si allungò sul sedile guardandosi intorno. Era arrivata, ma dove? Riconobbe un dettaglio, un albero storto proprio di fianco all’edificio della biglietteria e capì di essere arrivata a casa, finalmente. Afferrò il borsone e scese di corsa, in contro alla sua mamma, che non poteva che essere lì.

La scorse a qualche metro da lei, con un vestito verde appena sotto il ginocchio che non ricordava di averle mai visto. Per qualche strano motivo sembrava più vecchia, poi ad un tratto capì e una lacrima le scivolò lungo la guancia. Quella che non era sua mamma, ma sua zia, la sorella maggiore, che le andò incontro e le cinse la vita con affetto. Dove si era cacciata sua mamma? Non c’era più, l’aveva lasciata sola. Si sentì piccola, indifesa, senza più forze. Fu il braccio di sua zia a farla riprendere, dicendole che in fondo non era affatto sola. Quanti anni aveva? Ancora non se lo ricordava, ma stava cominciando a crescere.

‹‹Coraggio andiamo, il funerale inizierà tra un’ora.››

Lia guardò sua zia e sorrise notando quanto fosse simile alla sorella, quanto fosse materna anche lei. Riprese in mano il bagaglio e si avviò. Sua madre era morta perché tutti muoiono, prima o poi, e questa volta era toccato a lei, ma non l’aveva lasciata sola e neppure incapace di badare a se stessa. Quanti anni aveva? Abbastanza per essere una bambina adulta. Aveva trent’anni e stava anche lei per diventare mamma.

[NdA: questo invece è il racconto originale per il concorso di cui sopra (ehm, sotto), quello serio, perché ogni tanto bisogna anche darsi un tono. Ma ora basta, non vi tedierò oltre con le mie storie, a meno che non me lo chiediate in ginocchio!]

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inquietante, splatter, fatto apposta per fare incubi

Ieri sera sono andata a vedere Prometheus in seconda serata. Ci sono andata come la solita bionda, informandomi solo sullo stretto necessario, cioè l’orario. “Qui dice 22 e 25, perfetto!”

Quindi non avevo la più pallida idea che Ridley Scott l’avesse pensato come il prequel di Alien e mi sono goduta appieno l’effetto sorpresa. Per fortuna ho lo stomaco allenato da anni di Medicina e lo splatter sotto sotto mi piace. E per fortuna non avevo mangiato troppo. Devo dire che ho apprezzato abbastanza il tema generale, la ricerca di risposte alle domande di base, questa questua ossessivamente portata avanti dalla dottoressa Shaw, con fede e scetticismo legati insieme come solo un essere profondamente umano può fare. La strana ossessione dei creatori di Alien – Dan O’Bannon e Ronald Shusett, mi informerò sul loro conto! – e dei loro seguaci per le forme di vita che ti ingravidano tuo malgrado e ti invadono violentemente l’esofago mi ha lasciata un po’ più perplessa. Sarà che sono una sottospecie di femminista e ho sempre pensato che l’utero nel mio addome fosse effettivamente mio e non di un qualche alieno del cavolo. È un po’ il motivo per cui anche La moglie dell’astronauta ha fatto muovere istintivamente le mie mani verso il basso ventre: volevo proteggermi l’utero. Comunque riconosco che certi argomenti possano esercitare un certo fascino, almeno su qualcuno, per cui andiamo avanti. Ho visto il film e mi sono fatta riaccompagnare a casa in macchina, nonostante l’allettante atmosfera romantica del naviglio all’una di notte. Avevo i nervi un filo scossi, lo ammetto. Mi siedo al tavolo della cucina perché sono una web-dipendente e… porca miseria ladra!! Torna lei, l’elicottero, salendo lentamente lungo il muro e – lo giuro! – fissandomi con un’aria da scena iniziale di Apocalipse Now. Lei, un’odiosa zanzara gigante – tra zampe e tutto arrivava tranquillamente a mezza spanna – che pensavamo di aver già fatto fuori da un po’. Lei, zanzara infingarda che mi ha fatto venire un infarto. Erano le due di notte, ma ho comunque urlato e tirato la ciabatta sul muro, perdendo ogni briciola di dignità. Cosa strana, la vicina di casa pazza non ha dato segni di vita, niente pugni contro la parete, niente martellate.

zanzara elicottero

Ora temo l’avvento di altre scene inquietanti, anche perché, nonostante sia stata colpita, della zanzara Apocalipse non è stato ritrovato il cadavere.

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