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Good Bye, Lenin!

Pubblicato: 22 dicembre 2014 da edgeofgloria in mare, varie, viaggi
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Ciao, ciao, ciao, ciao

ciao, CIAO, ciao, ciao, ciao, ciao

Ripetizione ossessiva di scene già viste

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Comfort in serie (preassemblati imballati spediti)

; rapporti high tech e felicità di vetro

[ma verde :)]

« – Che strano, non è cambiato niente. – Perché, doveva cambiare qualcosa? »

« – Che strano, non è cambiato niente. – Perché, doveva cambiare qualcosa? » (Good Bye, Lenin!)

Questa ve la svendo proprio, mentre preparo la valigia e ci infilo dentro mille pensieri. Roba vecchia di 4 anni fa, solo per dire CIAO a questa città che mi ha fatto uscire dai soliti schemi. Au revoir Gênes, e buon Natale!

Il Bel Paese è un gran gineceo e non sto parlando del famoso formaggio. Sono un giovane (e già partiamo male) medico (sottofondo di risate del ministro Giannini) donna (qui forse ho qualche speranza) che nella vita vorrebbe fare un po’ di ricerca scientifica che sia degna di questo nome. So che state pensando che sia appena partito l’intermezzo comico, ma vi giuro che è proprio quello che sogno di fare. Sorridete, lo vedo, e capisco perché. Sorrido anch’io, dai, ho una buona dose di autoironia. Non è credibile che una persona dotata di senno possa desiderare una carriera da ricercatore in un Paese in cui si fatica a trovare un bagno pubblico non infestato da parassiti grandi come la testa di un cavallo. Gloria, anche tu, un po’ di realismo!

Avete ovviamente del tutto ragione, ma il realismo mi ha rotto i cojones, per dirla con finezza alla Rocky Balboa. Negli ultimi mesi ci ho sbattuto la faccia una marea di volte e francamente mi sono stancata. Oggi i giovani devono essere smart, dinamici, flessibili, vogliosi di lavorare fino alla prostituzione, non si può più vivere di sogni e speranze, l’amor proprio e l’orgoglio sono bagagli inutili da portarsi appresso. Simili concetti mi sono stati ripetuti fino alla nausea e ora dovrò iniziare a dirmelo anche da sola. Lo sai, Gloria, che bisogna adattarsi, che se ti mandano a lavorare a 1000 chilometri di distanza con un preavviso di una settimana tu ci vai e stai zitta, perché è del tuo futuro che si sta parlando e se hai glutei sufficientemente sodi per farti ripescare in un concorso pubblico dopo mesi di attesa poi non fai la pignola su dove ti spediscono. Ma sapete che c’è? A me non va bene questo sistema delle proposte che non si possono rifiutare, delle bottiglie di Barolo da portare al primario, del rimming selvaggio per un briciolo appena di considerazione. Io l’antiquata valigia di cartone con valori e morale un po’ schiacciati dentro continuerò a portarmela in giro e ad attaccarci gli adesivi di viaggio, con tutto l’orgoglio di cui sono capace.

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Intanto – io e lei – possiamo dire una cosa di Genova, che ci sta ospitando, anche se per poco (ancora grazie alla flessibilità): la Superba merita tutto il suo nome. Superba nel resistere alle alluvioni, Superba nello smentire tutti i luoghi comuni. Se qualcuno vi parla male dei genovesi ridetegli in faccia perché sta mentendo. Mi hanno offerto da bere già fin troppe volte e hanno conquistato il mio cuore in un nanosecondo. Quando non vedi un amico da 18 anni ed è quasi come se non fossero passati, quando cammini in un vicolo pieno di gente ubriaca di vita, non puoi che inchinarti e sorridere di gratitudine per un mondo così, colorato, folle, frenetico, imprevedibile, bello. Posso partire, dopotutto, posso essere flessibile, tanto so già che tornerò a Pasqua!

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Fascino e intonaco scrostato

Tenetevi forte, perché questa forse non ve l’aspettavate. Ho cambiato colore di capelli: mi sono fatta rossa. È stata una decisione presa senza pensarci troppo, con il benestare e la spinta decisiva di mia madre, che ha sempre detestato i capelli rossi, ma per me ha fatto un’eccezione. Uno di quei momenti di leggera follia in cui si vede che io e lei siamo parenti. Ecco, ora vi sento già tremare e temere per la mia chioma: che fine avrà fatto il biondo che era in lei? Dove si sarà nascosta adesso quella bella, prosperosa e platinata Marilyn che vi allietava con le sue avventure simil-californiane? Ebbene, non disperate, perché sono sempre qui al mio posto e quello che sto per raccontarvi lo dimostra.

 

Poco più di una settimana fa sono stata a Genova, diciamo per fini scientifici e per qualche minima aspirazione ricreativa. Volevo vedere il mare, già che c’ero. Il tutto è stato deciso in meno di 24 ore e non era previsto – purtroppo – che io indossassi un costume: avevo un appuntamento con un professore. Siamo partiti, io e il mio baldo cavaliere errante in groppa al fido destriero “FIAT Bravo”, armati di mappa o meglio di Tomtom. Quel Don Chisciotte Era mio padre, come recitava il titolo di un noto film con Tom Hanks. Mi ha molto magnanimamente evitato la fatica di trovare un treno decente all’ultimo minuto (ve l’ho detto che sono rimasta bionda, in fondo), facendomi pagare un piccolo dazio per l’accompagnamento, come vedrete. La Nannini scatarrava nel lettore CD – retaggio dell’abituale utilizzatrice dell’auto, ossia mia madre – e io cercavo disperatamente di non addormentarmi. Volevo godermi il viaggio, perché mi hanno fatto sempre sognare le strade che portano in Liguria, circondate su tutti i lati da dinosauri sonnecchianti e con la schiena irta di pini. Da piccola mi sembrava quasi di vederli muoversi, ma molto molto lentamente, come si muovono le montagne. Missione fallita, naturalmente. Da questo punto di vista non sono decisamente più come da bambina: adesso appena si raggiunge la velocità di crociera io crollo e la testa mi si pianta con convinzione giù tra le clavicole. Per fortuna c’era l’irritante voce del navigatore a scuotermi di tanto in tanto dal mio sonno e a strapparmi non poche imprecazioni ad occhi chiusi, con le sue segnalazioni di tutor ed autovelox sparate a tutto volume. Una scena senza dubbio comica, che purtroppo è stata solo la prima di una ricca serie.

Intorno all’una decidiamo all’unanimità (decido io) di fermarci in un autogrill tra un traforo e l’altro per mettere qualcosa sotto i denti. Non potevamo scegliere cinema migliore per spiare le cicatrici e le ustioni di una gioventù sempre più bruciata. Siamo stati disgraziatamente vicini di tavolo per tutto il tempo di due individui di sesso maschile a dir poco mal assortiti. L’uno, magro come un chiodo e tutto chiuso nel suo angolo di timidezza e di silenzio, ci dava le spalle – piuttosto curve. L’altro, l’inspiegabile amico, si è invece rapidamente impossessato di tutto il corridoio: arrivato con il suo più che salutare panino, ha spostato con un gesto plastico la sedia il più lontano possibile dal tavolo, cercando al contempo di accoppare una vecchietta che passava proprio in quel momento. Perché lui, in quanto uomo, è multitasking. Ispirata dalla sua pancia flaccida e da quei circa 30 anni buttati al vento (giacché la sua conversazione era universalmente udibile), il mio commento fatto a voce sufficientemente alta è stato: “Certo che i burini sono proprio tutti uguali!”. E poi gli ho riso in faccia. Grazie al cielo non mi ha picchiata e abbiamo potuto riprendere il viaggio.

Mi riassopisco e il prode Tomtom, dopo essere stato riacceso con qualche difficoltà, ci guida senza fallo fino alla città bella, stranamente senza più importunarci con le sue chiacchiere. A questo punto ricominciano i guai, perché pare proprio che Tommy si sia offeso per qualcosa e che abbia voluto farci il simpatico scherzo di divenir tremando muto. Ne è nata naturalmente un’estenuante diatriba, in cui mio padre ha cercato invano di attribuirmi la colpa della situazione, ma non ho ceduto: io stavo dormendo! Padre precipita subito nel panico e invece di seguire diligentemente le frecce decide di iniziare a girare in tondo, fino a quando scorge il malaugurato cartello che indica il famoso porto di Genova. Fiondiamoci! Dritti verso la dogana e poi agli imbarchi seguendo la scritta CARGO. “Dubito che ci sia un professore che mi aspetta, su una nave”

Avrei voluto sprofondare, ma più in basso di così c’era solo il mare. Comunque, in parole povere alla fine abbiamo – non so come – recuperato un po’ di self control e siamo in qualche modo giunti a destinazione. Ho preso il pulmino che dovevo prendere e ho parlato con chi dovevo parlare, di topi, HIV, spettrometria di massa, scoperta del DNA e tante altre cose. Tutto è andato secondo i piani, più o meno, e io ho ancora avuto il tempo di perdermi tra i vicoli dell’ospedale, anche se dovevo semplicemente scendere dalla montagna.

Dulcis in fundo, il mare l’ho visto solo tra uno scoglio e l’altro perché si sa che a Genova c’è la barriera e io non potevo certo rovinarmi le scarpe nuove! Così siamo ripartiti e io mi sono persa un po’ guardando fuori dal finestrino questa città strana, che ricorda vagamente una favela arroccata, ma che sa essere elegante a tratti. Poi mi sono riaddormentata: ragazzi, che fatica essere bionda!

§g§